ACID JAZZ    N° 5   12/1995
GINO VANNELLI
Roma 6/11/95  Teatro Nazionale
Abbiamo incontrato uno degli artisti mito del pop più colto e raffinato degli ultimi venti anni. Vannelli racconta di sé, della sua crescita artistica e del nuovo album Yonder Tree.

Di Giancarlo Mei

In modo molto curioso il suo nome viene da sempre escluso dalla maggior parte dei manuali di ricapitolazione dei vari generi musicali, siano essi attente guide al rock, alla fusion, alla new age, alla dance o al jazz. Probabilmente questa è la spiegazione di tanto scempio: la musica di Gino Vannelli non è mai stata facilmente collocabile, a meno di non prendere tutte quelle definizioni "di comodo", e farne un ipervitaminico frullato sonoro, una mistura che ricordi a chi le si avvicina la possibilità che ognuna delle varie sfumature possa emergere sull'altra senza troppa difficoltà, a seconda delle specifiche ambizioni o necessità dell'autore in quel determinato momento. C'è però un'altro modo per tagliare la testa al toro, e focalizzare meglio questo quarantatreenne di Montreal: semplicemente quello di parlarne come di un cantante, indubbiamente tra i più bravi, sottili e dotati dei molti che si sono cimentati nell'arte antica di esprimersi con microfono e corde vocali dai Settanta ad oggi. Nella sua lunga carriera, iniziata a circa sedici anni in Canada (e poi spostatasi nell'allora più stimolante California) Vannelli ha pubblicato solo dodici album, pochi se vogliamo; un numero che fa subito riflettere sulle sue specifiche caratteristiche di artista esigente, attento ai minimi particolari e soprattutto indipendente dalle pressanti logiche commerciali richieste dalle case discografiche. Lo incontriamo a Roma, dove è giunto per il suo nuovo tour mondiale, e gli chiediamo ovviamente qualcosa del suo nuovo album, probabilmente il progetto più jazzistico ed intimo finora da lui realizzato. "Per fare Yonder Tree" ci dice Vannelli con voce gentile e pacata dinanzi ad una ricca colazione, "ho dovuto costruire uno studio fatto appositamente per l'album. Si tratta di una sala pensata proprio per suoni acustici. Quello che ho imparato con questo disco è stato appunto il fatto di riscoprire strumenti come il pianoforte, il contrabbasso, il vibrafono. Ora il mio interesse è in questa direzione. Per la composizione avevo un sacco di materiale, ma c'è voluto parecchio tempo per limarlo e lavorarlo. Poi abbiamo scelto attentamente la band, ed infine lo abbiamo suonato. Praticamente sono stato sul disco per un paio d'anni di lavoro." A Montreal quest'anno Vannelli ha aperto l'annuale ed importantissimo jazz festival. "Oh sì, è vero; è stato molto divertente, perché alcune persone erano lì un po' dubbiose e mi dicevano: "Sei un po' cambiato. Anzi, sei proprio cambiato! Perché lo hai fatto?". L'italocanadese sorride, e poi prosegue "A me sembra ovvio, sono passati vent'anni, e mi ero stufato di cantare sempre "I Just Wanna Stop" nel solito modo: "Rrring....For Your Loooovee..." (e ridacchiando accenna una irresistibile autoparodia, ndr). Così partendo da quel concetto abbiamo fatto nuovi arrangiamenti anche per le altre canzoni da eseguire in concerto. E del nuovo progetto discografico, gli chiediamo, è completamente soddisfatto? "No, qualcosa si poteva fare meglio; anche se certe cose le ritengo davvero riuscite, per esempio il brano "Walter Whitman Where Are You". Ad ogni modo un senso di insoddisfazione penso sia costruttivo per un artista, perché lo spinge a fare meglio nel progetto immediatamente successivo."  Qualcos'altro sta bollendo già in pentola? “Sì, il prossimo album sarà qualcosa di jazzato, sai, amonicamente complesso, con movimenti pianistici alla Bill Evans. Sotto però vorrei mantenere molto funk alla Tower of Power. Avrò Dave Garibaldi alla batteria ed ho già in mente grandi melodie con parecchi cambi armonici. Penso però che qualche canzone sarà un pochettino più commerciale di Yonder Tree, visto che questo non lo è poi tanto”. Sorride e poi aggiunge ancora "Il disco sta vendendo molto bene, almeno per essere una cosa un po' underground". Ma da dove vengono tutti questi stimoli e le idee compositive che da sempre accompagnano la sua scrittura, quelle che lo hanno spinto a creare un "suo" suono fin dai lontani tempi del esordio con "Crazy Life"? "Da giovanissimo ho ascoltato un sacco di musica classica. Autori e compositori come Verdi, Puccini, Ravel e Debussy; e poi tutti i romantici con quei bellissimi fiumi melodici. Quella è stata una grande influenza su tutto ciò che ho fatto. Lì ho preso il giusto per accordi che cambiano, e melodie che vanno continuamente in posti diversi, che non si ripetono mai. Non dico questo per vanità, ma sinceramente non mi aspetto che la gente capisca davvero fino in fondo cosa sia questo album." Ed il jazz che peso ha avuto nella sua formazione? "Moltissimo, mio fratello era un appassionato e poi devi sapere che mio padre era un cantante blues e jazz. Arrivò molto vicino a registrare un album, ma sfortunatamente non ci riuscì. Io ho un incredibile rispetto per i cantanti jazz". E del Sinatra dei tempi d'oro cosa ne pensa Vannelli? "Penso che ai ragazzi di venti o venticinque anni oggi Sinatra non faccia più molta impressione, perché la sua energia non è più la stessa. Ma se solo potessero sapere, se solo andassero ad ascoltare le sue cose più vecchie, magari del periodo Capitol... Ma anche September Of My Years rimane uno dei migliori album di ogni tempo. Io personalmente impazzii quando sentii quella roba per la prima volta. Gli arrangiamenti, i suoni, come tutto veniva arrangiato...incredibile. Uno degli ultimi grandi album che riuscì a registrare fu quello con Antonio Carlos Jobim (Francis Albert Sinatra And Antonio Carlos Jobim, Reprise 1968, ndr). Smisi di seguire Sinatra con molta attenzione con i primi anni Settanta, perché fu così duro per me scoprire che gli altri album che seguirono non riuscirono più ad essere a quell'altezza." Quando abbiamo nominato Sinatra gli occhietti furbi di Vannelli hanno cominciato a brillare lasciando trasparire tutta la stima e la passione che un cantante come lui può avere per chi forse rimane il più importante vocalist del nostro secolo. "Ho sempre voluto incontrare Frank Sinatra", aggiunge quasi con rammarico "ma non ci sono ancora riuscito". E Vannelli invece, come cantante, sta ancora studiando? "Sì, anche se è molto, molto duro. So di avere lo sturumento adatto, ma ogni devo lavorare ogni giorno, come se la mia voce fosse un muscolo. È difficile controllare le note per renderle levigate, distese. La maggior parte dei cantanti non lo fa, ma a me piace perché era lo stile di Sinatra. Ascoltare uno come lui quando sei giovane ti conquista. Io comunque non mi ritengo ancora perfetto. Vorrei fare meglio, ma purtroppo quando sei attivo su troppe cose contemporaneamente non hai molto tempo a disposizione. Lavoro alle mie partiture per piano  come compositore, autore delle liriche e produttore;  il tempo mi vola via. Come cantante ora ho quarantatre anni; sto arrrivando ad una situazione nella quale potrei essere al mio meglio, perché la mia voce è più profonda di quanto non fosse, pur mantenendo la stessa estensione in alto. Questo album comunque è stato molto impegantivo per me, perché a volte non c'é molto altro attorno alla voce, come in "Walter Whitman", è così è diverso da cose come "Black Cars”. Dunque torniamo a parlare del senso del disco: "Nei circoli più spirituali, l'albero è sempre associato all'idea stessa della vita, come ad esempio nella cabala ebraica. Così "Yonder Tree" vorrebbe rappresentare tutto ciò che vorresti ed in qualche modo ti è  lontano, quel qualcosa che continui a guardare, a cercare e che ti spinge a fare meglio, è un disco sulla vita e sulla gioia di vivere. Cosa, tra l'altro, che ho cercato di rappresentare nell'inserto di tap dancing contenuto in "Fallen in Love". Ho sempre pensato che ballare il tip-tap fosse la cosa più gioiosa che un essere umano possa fare..." Gioioso e comunicativo, ecco il Vannelli moderno, senza più quell'alone di malinconia che venne fuori ai tempi dello spiacevole contrattempo del mai pubblicato Twisted Hearts, un disco completo nel 1982, del quale riuscì ad arrivare nelle charts solo il dinamico singolo a quarantacinque giri "The Longer You Wait" "L'album era totalmente finito, ma alla compagnia (la Arista, ndr) non piacque. Non tanto le canzoni, ma quel tipo di approccio. Volevano qualcosa sul tipo "blue eyed soul" e non quel sound più energico, quasi fosse una sorta di rock. Volevano che facessi roba sul genere degli Air Supply, ed io non potevo e non volevo farlo. Ebbi degli scontri terribili con la Arista, ma purtroppo persi. Non riuscii più a registrare nei tre anni succesivi. L'album era tutto suonato nel mood di "The Longer You Wait". Era molto semplice, basso batteria e chitarra". E che fine hanno fatto i master del disco? Con l'attuale febbre per le rare tracks che anima gli appassionati dell'acid jazz, se pubblicato oggi quel disco avrebbe certo un mercato pronto a riceverlo... "I masters sono di mia proprietà. Uhm”, aggiunge bevendo una tazza di cappucino, “interessante quello che dici; penso che anrdò a risentirmi quel materiale, e magari penserò meglio a questa eventualità”. Parlando con lui emerge nitida l'immagine di un artista onesto, sincero, che non disdegna di citare anche i colleghi che stima di più. "Ho amato il lavoro precedente di k.d. Lang (Ingenue, ndr) era country ma molto intimo, molto bello. Comunque ascolto di tutto, anche perché come produttore sono sempre interessatissimo ai nuovi suoni. Nell'86 ho conosciuto Sting, un ragazzo molto umile, gioioso del quale apprezzo buona parte delle sue cose; è davvero uno dei migliori artisti in circolazione”."E Donald Fagen? "Oh lui è bravo, straordinario e molto, molto intelligente. Scrive sempre pezzi con splendidi accordi e liriche bellissime. Penso che lui possa essere davvero il più importante composiore dei nostri tempi. Don è in tutti sensi la vetta della pop music. Sai, più volte ci siamo fatti rispettivamente degli inviti ai nostri concerti, anche se in realtà non ci siamo mai davvero conosciuti”."Tutto ad un tratto e senza troppi preliminari Vannelli ci rivela una primizia davvero imprevedibile. "Ho appena fatto un duetto con un artista italiano, Gianni Bella. Il disco verrà fuori verso la fine dell'anno prodotto da mio fratello Joe. È roba commerciale ma molto buona; secondo me lui scrive e canta molto bene. Nei suoi pezzi ho trovato delle buone aperture e melodie molto carine. Pensa, ho cantato il pezzo con lui in italiano...” E con gli occhi al cielo ed una sorta di sorriso sul volto comincia a sussurrare nella nostra lingua "Accendi la tua sigaretta, amore mio, sei la più bella donna...poi.." dice esplodendo in una risata contagiosa "non me la ricordo più. L'abbiamo fatta anche in spagnolo" Il check-sound del concerto incombe. Gli chiediamo per chiudere quale sia stato il momento più emozionante della sua carriera di performer? "Mah, pensandoci bene direi uno dei miei primi concerti, quand'ero giovanissimo e capitò qualcuno con una video camera. Finita la serata rividi le immagini e osservai i volti della gente. Era tutta felicissima, ed era lì per me. In quel momento capii di essere arrivato a qualcosa, sentii che potevo davvero farcela. Devo ammettere però che ogni sera per me è una forte emozione. Ogni sera è la stessa cosa; mi chiedo tutte le volte "ricorderò tutte le parole?", riuscirò a dare il meglio, a cantare con la giusta intonazione? Poi prendo fiato, vado sul palco e mi diverto".
Giancarlo Mei